La produzione di vini frizzanti è una scelta tipica dell’enologia delle regioni del nord Italia. Tale scelta è strettamente legata alla particolare natura delle viticolture di queste zone, ove in generale le uve hanno maturazioni tardive e i vini svolgono la loro fermentazione nel corso degli ultimi mesi dell’anno. Questo comportava spesso fermentazioni incomplete che riprendevano il loro corso coi primi tepori primaverili, quindi durante i primi mesi dell’anno successivo a quello della vendemmia.
Nel passato prevaleva un consumo della versione ferma di tali vini; a volte, la ripresa fermentativa avveniva comunque e il vino nuovo, ottenuto spillando direttamente dalla botte o dalla damigiana, era saturo di gas, ma non in sovrappressione. Con la disponibilità di bottiglie resistenti alla pressione, una buona parte di queste produzioni, utilizzate per uso domestico e per la mescita pubblica, veniva imbottigliata per essere consumata in un momento successivo, quando il vino si era ormai purificato dalle sospensioni grazie al freddo invernale.
Il periodo più propizio per eseguire tale imbottigliamento era appunto quello di inizio primavera, quando la luna raggiungeva il primo quarto. Da quel preciso momento, i vini iniziavano nuovamente a rifermentare in bottiglia diventando secchi e frizzanti, in seguito all’esaurimento dello zucchero residuo e all’arricchimento in anidride carbonica. Tale processo (per l’ottenimento di vini secchi e frizzanti) derivò da quello dei produttori francesi di Champagne, che, grazie alle scoperte fatte nel corso della rivoluzione industriale inglese alla fine del Seicento, poterono anche utilizzare bottiglie in vetro capaci di resistere alla pressione. A metà del XIX secolo la rifermentazione in bottiglia si diffuse così in Piemonte (Asti), Veneto (Prosecco) ed Emilia (Lambrusco), con tecnologie che, per limitare il costo di tali produzioni, di rado prevedevano la sboccatura, ossia l’eliminazione del fondo dalla bottiglia.
L’evoluzione tecnologica del secondo dopoguerra convertì tali produzioni all’utilizzo delle autoclavi e del metodo Charmat, che in Italia è chiamato metodo Martinotti ad onore dell’italiano che lo inventò e non del francese che lo brevettò e lo sfruttò a fini commerciali.
In questi ultimi anni, l’attenzione dei consumatori e dei produttori si è progressivamente rivolta al recupero della cultura e della tradizioni del passato, anche attraverso la ricerca di sensazioni più autentiche, anche se causa di una marcata influenza sulla componente organolettica del vino. Ecco allora affermarsi il recupero di metodi definiti “tradizionali”, “ancestrali”, “atavici”, termini atti a sottolineare non tanto la tecnologia del “vino col fondo” quanto il recupero culturale di un modo di bere e di vivere meno sofisticato, ma di maggior soddisfazione.
Cantine Riunite & CIV, presente ed attiva in Emilia e in Veneto, ha deciso di presentare tre vini frizzanti ispirati a tale tecnologia, sia per sottolineare la tradizione della base sociale di origine contadina dell’azienda che per offrire al consumatore di oggi un vino che esprime un pezzo della storia enologica del nostro paese.